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HANGIN' ON A WIRE (2016)

"E' con grande piacere che ritrovo Paolo Ambrosioni a poco più di un anno dal suo precedente disco; lui e i suoi Bi-Folkers (Davide Trombini e Roberto Necco) camminano per la loro strada, polverosa e tortuosa; hanno raffinato il suono e la qualità dei missaggi e il nuovo Hangin' on a wire ora è un prodotto che piacerà agli appassionati di quel country-folk imparentato con i traditionals della tradizione popolare, ben espressa nella finale Folk 'n Roll: "...I play my  soul / ...Let me play same old chords / All we do is Folk 'n Roll". Ma al di là dell'old time music, così ben evidenziata dalle ritmiche sostenute da banjo e mandolino, si innalza il canto orgoglioso di Ambrosioni che memore non solo di Woodie Guthrie, ma anche delle sue esperienze come operatore sociale, canta in Social worker blues: "I keep on workin' in the dark / And I know these times are hard". Tutto il disco scorre via con una grande dignità, non solo musicale, ma anche contenutistica, grazie a testi che evitano accuratamente la superficialità. Bravi!"

Buscadero, aprile 2016

"Vengono da Torino, ma all'ascolto suonano come una autentica band del Midwest americano: Ambrosioni e' dotato di una voce intensa e robusta a tratti somigliante a quella di Eddie Vedder, e il trio che guida (voci, chitarre e percussioni) si esprime - e lo ribadisce esplicitamente nell'ultima, omonima canzone del disco - nella lingua del 'folk'n'roll' dimostrando di avere assimilato alla perfezione i fondamentali della musica americana di matrice roots e cantautorale. Nessun calo di tensione, nei dieci inediti contenuti nell'album: le citazioni e i modelli di riferimento sono spesso evidenti ma mai pedissequi e imbarazzanti, il suono coinvolgente e - per chi ancora non li conosce - 'Hangin' On A Wire' sara' una vera, piacevolissima sorpresa"

Paper Moon, Biella

"Paolo Ambrosioni è uno che va dritto per la sua strada. Non si ferma a guardare le vetrine oppure a pavoneggiarsi davanti agli specchi dei caffè alla moda. Men che meno, visto che ormai i negozi di dischi non esistono praticamente più, bazzica davanti alle edicole a caccia di ispirazione al cospetto delle dozzinali riviste giovanilistiche che spacciano per artisti fenomeni partoriti dai reparti marketing incastrati nelle macerie ormai fumanti delle case discografiche e svezzati da esperti in maquillage, comunque più credibili degli atroci esperti da reality o degli incartapecoriti giudici da talent show.
L’Ambrosioni, questo gli va riconosciuto a prescindere, non va neppure a caccia di spunti banalotti o di fin troppi facili e redditizi accostamenti. Va proprio dritto per la sua strada e, lasciatisi alle spalle i dieci brani dell’esordio discografico ‘No place to hide’ del 2014, riprende il cammino al fianco dei fidi Bi-Folkers esattamente da dove l’aveva interrotto. Personaggio atipico ma non di rottura nel panorama nazionale di settore, l’artista torinese con la coppoletta archivia quella smunta copertina in bianco e nero di due anni or sono, caratterizzata da note in caratteri talmente piccoli da poter logorare anche la lente di un microscopio, ma non il suo stile intimistico, essenziale e introspettivo. L’edificio non bene identificato della copertina di allora, tuttavia, è ancora oggi reale e si trova a Clarksdale, Mississippi: un tempo ospitava il popolare Wade Barber Shop dove, durante il taglio dei capelli o la rasatura, il barbiere in persona cantava classiconi blues per i fortunati avventori. Le uniche note di colore, in quei giorni ormai passati, erano invece date dall’interno di un booklet caratterizzato dalle foto a colori delle registrazioni.
All’epoca, durante una conversazione privata via Facebook, avevo riposto ad Ambriosioni definendo il suo esordio come un “gran bel lavoro. Davvero atipico e personale, per niente derivativo. Ed è giá una cosa super! Lo trovo fresco, intimo ma per nulla tristanzuolo”. Troppo poco, mea culpa!, per esaminare a fondo un album meritevole che l’autore stesso etichetta oggi come condizionato solo dall’inesperienza collettiva in sala di registrazione e forse, aggiungo io, anche dalla legittima fretta di immortalare idee, stimoli ed esigenze che covavano ormai da troppi anni nella sua mente e in quella dei suoi collaboratori. E, ovviamente, non vedevano l’ora di saltare fuori una volta per tutte. Personalmente, a quei tempi, nonostante le ben note passioni personali di Ambrosioni (partito nel 1997 come protagonista di un tributo acustico solitario a Bruce Springsteen e solo in seguito assurto al ruolo di leader del progetto Bi-Folkers insieme al romano Guido Iandelli, allargando il repertorio a sonorità blues, country, old time e spiritual, tutte ri-arrangiate in chiave essenziale) avevo trovato solo due evidenti, e forse inconsapevoli, influenze debitorie: ‘4th of July, Asbury Park’ per ‘This wild land’ e ‘Brown eyed girl’ per ‘Child eyes’. Consapevoli o inconsapevoli che fossero, comunque, risultavano alla fine ben poco invadenti o ruffiane in un contesto di spericolata originalità per la scena nazionale dove, nonostante una malinconia di base e una chitarra spesso debitoria al Mark Knopfler post D.S., emergeva una predisposizione assai più legata alla West che alla East Coast, nonostante si trattasse di un cantautorato evidentemente di matrice urbana con esplicite venature agresti.

E, due anni più tardi, la storia si ripete con quelle limature in fatto di malizie e capacità espressive tanto auspicate da Ambrosioni che consentono oggidì a ‘Hangin’ on a wire’ (già disponibile su ITunes, Amazon, Spotify e su tutte le altre piattaforme di distribuzione digitale) di compiere un ulteriore salto di qualità. La voce del padrone di casa, una curiosa fusione di Chris Isaak e Nils Lofgren sfumata di Scott McKenzie, ben si colloca anche nell’ambito di questi nuovi dieci brani autoprodotti e lavorati in analogico (registrati, mixati e masterizzati) da Little John Guelfi allo studio Sonica X di Torino.
Qui vengono sviluppate idee e sonorità ovviamente già abbozzate in occasione dell’esordio: Ambrosioni non va in cerca di hit e/o tormentoni, si accontenta di raccontarsi e raccontare. Magari, potendo, anche di far riflettere. La copertina, intanto, si arricchisce di provvidenziali tinte e, se gli amici riminesi Miami & the Groovers avevano scelto nel 2008 un merry go round per dare anche il titolo a un riuscitissimo album, il Nostro approfitta in questo caso di una un po’ meno nobile, ma più adatta ai ricordi dei nostri padri, giostra a seggiolini volanti (più nota anche come calcinculo o chairoplane), attrazione dei luna park stabili e itineranti, nonché dei parchi di divertimento. Una scelta che profuma tanto di neorealismo. Del resto, il museo del cinema lo hanno realizzato proprio nella città della Mole ed è perciò, forse, un omaggio dell’autore che regala un’immagine finalmente colorata con tanto di cielo azzurro, ma parzialmente nuvoloso, immortalata su un disegno che pare uscito da un numero ormai ingiallito dalla Domenica del Corriere d’annata (ma senza, volontariamente, essere perfettamente definibile come periodo). E, nascosta proprio sotto il cd, all’interno della custodia arriva invece un’immagine che ritrae il classico temerario dei tempi che furono appeso all’ala di un bimotore a elica alla Faulkner e impegnato in chissà quale folle evoluzione. Molto poco Tom Cruise e assai più, fortunatamente, Amelia Earhart.
I caratteri, questa volta, si leggono molto meglio ed appare subito evidente come Ambrosioni sia ancora una volta autore di musica e testi, mentre gli arrangiamenti risultino invece collettivi. I Bi-Folkers (curioso il gioco di parole che evidenzia l’originaria composizione in duo e il sound tipicamente folk delle origini ma consente, anche e soprattutto, una lettura auto-ironica in ‘bi-folchi’…) hanno ripreso vita nel 2012 dopo qualche anno in stand-by e, nonostante il doloroso forfait di Iandelli dovuto esclusivamente a motivi di lavoro (rimane, comunque, un elemento onorario del combo), si erano arricchiti progressivamente di componenti e strumenti. In questo caso specifico, fermo restando che il leader mantiene il controllo del microfono suonando anche chitarra acustica e armonica, accreditati come B-F sono il confermatissimo Davide Trombini (chitarra elettrica, acustica e mandolino, già suo collaboratore nei Broken String, ma attivo anche con Black Cat Bones e Rocking The Globes) e la novità Roberto Necco a banjo e chitarra acustica. Inoltre, tra i musicisti onnipresenti, ritroviamo anche Antonino Arcabascio alle percussioni che completa con il bassista Seba una sezione ritmica puntuale, efficace e mai invadente.
Già nell’iniziale ‘Brand new light’ appare ben chiaro che il banjo, pur presente anche in occasione dell’esordio, questa volta costituirà una parte ben più rilevante e volutamente incisiva nell’economia generale. Solito arpeggio di base dell’ispirato Trombini e backing vocals targati Seba, il resto spetta ad Ambrosioni con un cantato più imponente rispetto le abitudini che, nonostante la voglia di contaminazioni folk, ci porta ben lontani dagli Appalachi e dai camicioni di flanella con tanto di barbacce incolte. Rimaniamo nell’ambito di un cantautorato talvolta polveroso e altre paludoso ma, comunque, sempre forte di una limpidezza di fondo che esula dalla caoticità di una festa paesana o dal rocambolesco brusio di un barrelhouse. La ritmata ma purtroppo brevissima ‘Many times’ conduce l’ascoltatore a metà strada tra la Grand Ole Opry e territori più adatti a Decemberist o Avett Brothers, mentre la successiva ‘Nothing will change’ abbassa drasticamente la velocità di crociera e torna palpabile la similitudine vocale con Isaak, ma anche con certe capacità espressive di Kevin Gordon e Andrew Dorff a cavallo tra drammaticità ed esuberanza.
‘Walkin’ along the line’, con il supporto di Sergio Bolognesi e Guelfi a foot percussion & hand clapping, esalta più che mai il banjo di Necco e prosegue nella trattazione di quelle tematiche umane legate all’attività di operatore sociale di Ambrosioni, intenzionato a ‘regalare’ a modo suo voce e musica alle persone e alle storie incontrate sul campo.
‘I got a question’ riporta il percorso su un livello più tipicamente neilyounghiano ed è come se James McMurtry e Matthew Ryan dialogassero con Paul Thorn e Greg Trooper, mentre la sei corde elettrica di Trombini conduce al giro di boa con una serie di accelerazioni alla Cheap Wine.
‘Hangin’ on a wire’ apre l’ipotetico lato B dell’album con echi di John Dee Graham e Will T. Massey: ancora una volta gli intrecci di chitarra, banjo e mandolino impreziosiscono di sfumature folk un pezzo brillante, in attesa che arrivi il piano di Giorgio Bancale a esaltare la delicata ‘Shine’ (dedicata al piccolo Ambrosioni Jr, Pietro) che si trasforma in una ballata ispirata e intensa alla Chris Rea.
‘Social worker blues’, ultimo passaggio impegnato del lavoro, pare accodarsi a certe cose del Daniele Tenca versione bluesman e le sue sfumature bluegrass potrebbero soddisfare anche l’ascoltatore di settore più impegnato che desideri tornare alla classicità, lasciando da parte le gustose ma a lungo andare troppo noiose estremizzazioni alla Hayseed Dixie o BossHoss.
‘Share the same’, brano più lungo dell’intero lavoro, è un esplicito omaggio sotto forma di ballatona ai Glory days in Rimini, alla sua gente, al suo spirito e a tutto quel brulicante mondo di artisti che, anno dopo anno, pare ampliarsi in maniera sempre più imponente, valicando anche i confini nazionali.
Il commiato è affidato a un divertissement in chiave country & western con tanto di sgangherata falsa partenza che coinvolge anche il concittadino Renato Tammi (leader di Spring Street Band, Dirty Licks e Wooden Brothers) diviso tra voce e chitarra, nonché l’esperto pluristrumentista Thomas Guiducci (già frontman di The Charters e Irish Taste, ma anche apprezzato solista, presente solo in questo epilogo) con la sua incisiva resonator guitar. ‘Folk’n’Roll’ è una degna chiusura che, probabilmente, dal vivo assumerà ben altre caratteristiche e si presterà alla partecipazione del pubblico, magari con una robusta dose di ‘call & response’ e l’inserimento di ospiti in base alle circostanze.
L’album sarà presentato ufficialmente il prossimo 23 gennaio."

Daniele Benvenuti, Instart.info

NO PLACE TO HIDE (2014)

"Gran bel lavoro. Davvero atipico e personale, per niente derivativo. Ed è già una cosa super! Lo trovo fresco, intimo ma per nulla triste. Stile intimistico, essenziale e introspettivo."

Daniele Benvenuti, Instart.info

Buscadero, aprile 2015

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